LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
   Ha pronunciato la  seguente  ordinanza  sui  ricorsi  proposti  dal
 procuratore  generale militare della Repubblica presso la C.M.A., nei
 confronti di Ruggerini Cesare, nato il 26 settembre 1940; e Ruggerini
 Cesare, come sopra generalizzato; avverso  la  sentenza  in  data  22
 luglio  1994  del  giudice  per  le udienze preliminari del tribunale
 militare di Roma, a seguito di giudizio abbreviato;
   Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso;
   Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal consigliere  dott.
 Mario Schiavotti;
   Udito  il  pubblico  ministero in persona del sostituto procuratore
 generale   militare   dott.   Bonagura,   che   ha    concluso    per
 l'inammissibilita'  del  ricorso  del  p.g.,  il  rigetto del ricorso
 dell'imputato;
   Uditi i difensori avv.ti Giarda e Ruggerini, che concludono per
  l'accoglimento del ricorso dell'imputato.
                        Svolgimento del processo
   Con la suindicata sentenza, il Ruggerini era condannato  alla  pena
 di  mesi  quattro  di reclusione militare, sostituita con la liberta'
 controllata  per  mesi  otto,  con  i  benefici   della   sospensione
 condizionale  dell'esecuzione  e della non menzione,  in relazione al
 reato  di  tentata  truffa pluriaggravata (art. 56 c.p., 46, 47 n. 2,
 234, primo e secondo comma c.p.m.p.), perche'  in  data  anteriore  e
 prossima  del  3  giugno  1991,  esibiva  al  competente  ufficio del
 Ministero della difesa, nella sua   qualita' di  ufficiale  superiore
 dell'Esercito  italiano,  documentazione  probatoria   non veritiera,
 cosi' ponendo in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco  ad
 indurre  l'Amministrazione  di  appartenenza,  al  fine di procurarsi
 l'ingiusto profitto della indebita liquidazione di rimborso di  spese
 asseritamente  sostenute  per  il  trasferimento da Brescia a Bonn di
 mobilio  e  di  masserizie  private,  in  realta'  non  effettuato  o
 effettuato solo in parte.
   Avverso   detta   sentenza,   il   Ruggerini   ha   proposto  "atto
 d'impugnazione", cosi' testualmente definito dal proponente,  con  il
 quale ha dedotto
  preliminarmente  l'ammissibilita'  dell'appello  nei confronti delle
 sentenze pronunciate a seguito di giudizio abbreviato, con  le  quali
 sono applicate, come nel caso di specie sanzioni sostitutive, nonche'
 -   correlativamente  -  l'incostituzionalita'  della  norma  di  cui
 all'art.  443 n. 1 lett. b  (che  non  consente,  appunto,  l'appello
 contro  le stesse sentenze), per contrasto con gli artt. 3 e 24 della
 Costituzione, soccorrendo a tale  riguardo  gli  argomenti  enunciati
 dalla  Corte  costituzionale nella nota sentenza n. 363 del 23 luglio
 1991,   con   la   quale   e'   stata   dichiarata   l'illegittimita'
 costituzionale  dello  stesso  art.    443,  n. 2, che sanciva eguale
 inappellabilita',  per  l'imputato,  delle  sentenze  pronunciate   a
 seguito di giudizio abbreviato, recanti condanna appena "che non deve
 essere eseguita".
   La  parte  ha  poi  rappresentato ulteriori doglianze di violazione
 della legge processuale e  di  illogicita'  manifesta,  relativamente
 alla  valutazione  delle  prove,  al diniego o al giudizio di valenza
 concernenti attenuanti generiche speciali, ovvero alla determinazione
 della  pena;  ed  ha   concluso,   sull'assunto   dell'ammissibilita'
 dell'appello  (senza  deduzione,  comunque,  di  formale eccezione di
 illegittimita'  costituzionale  ut  supra),  per  l'assoluzione   con
 formula  piena,  ed in   subordine per la concessione di attenuanti e
 riduzione di pena.
   Ha proposto  ricorso  altresi'  il  procuratore  generale  militare
 presso  la Corte militare di appello, censurando, con argomenti vari,
 l'applicabilita'  ai   reati   militari   ed   alle   relative   pene
 dell'istituto delle sanzioni sostitutive.
   Con  ordinanza in data 1 marzo 1995, la Corte di merito formalmente
 adita con l'impugnazione dell'imputato l'ha qualificata  ricorso  per
 cassazione, ai sensi del combinato disposto del precitato art. 443 n.
 1  lett. b e l'art. 568, quinto comma c.p.p., ha rimesso gli atti per
 il giudizio alla Corte di cassazione. Ma con successiva ordinanza del
 3 luglio 1995, il giudice di legittimita', preso atto della  volonta'
 delle   parti  di  proporre  impugnazioni  nella  forma  dell'appello
 (l'imputato per  la  prospettata  illegittimita'  costituzionale  del
 divieto di tale rimedio nel caso di specie, come in quelli omologhi),
 e  ritenuta  pregiudiziale  la  soluzione  di  tale questione ai fini
 dell'eventuale investitura della Corte di legittimita',  ha  disposto
 la  restituzione  degli  atti  alla  Corte militare di appello per le
 conseguenti determinazioni.
   Con  ordinanza  del  17  aprile  1996  della Corte ha dichiarato la
 manifesta  infondatezza  della  predetta  questione  di  legittimita'
 costituzionale  e,  qualificato  come ricorsi e impugnazioni proposte
 dall'imputato e dal p.g.m. avverso la succitata sentenza, ha ordinato
 la trasmissione degli atti, per competenza alla Corte di cassazione.
   Tanto premesso, e preso  atto  della  riproposizione,  dell'odierna
 pubblica  udienza,  della  stessa  questione  da  parte dei difensori
 intervenuti, anche in termini piu' lati rispetto a  quelli  enunciati
 nei   motivi   scritti   di   impugnazione   dell'imputato,   occorre
 preliminarmente  accertare  la  rilevanza  e   l'ammissibilita',   in
 relazione, per quest'ultimo profilo, alla deliberazione fattane dalla
 Corte  militare di appello, che questo stesso giudice di legittimita'
 aveva deputata, con la precitata ordinanza del 3  luglio  1995,  alla
 soluzione del problema.
   Se   nella   rilevanza   della   questione   non   possono  sorgere
 perplessita',  per   l'evidente   decisione   influenza   che   sulla
 qualificazione  e  sulle  sorti  dei  gravami proposti, nonche' sulla
 ritualita'  dei  motivi  enunciativi  (soprattutto,  di  quelli   del
 ricorrente imputato), avrebbe il giudizio della Corte costituzionale,
 sollecitato  dalla  difesa,  di  soluzione  non  altrettanto prima si
 appalesa, il profilo della sua ammissibilita' in questa sede,  attesa
 la   decisione  precedente  del  giudice  di  appello,  che  potrebbe
 atteggiarsi come preclusiva di ogni altra indagine in materia.
   Ma, a ben guardare, non v'e'  ragione  di  serio  dubbio  circa  la
 riproponibilita'   della   questione   alla   Corte   di  cassazione,
 considerato che questo era  il  giudice  ex  lege  istituito  per  la
 competenza sui gravami, secondo il disposto vigente degli art. 443 n.
 1   lett.  b  e  568,  quinto  comma  c.p.p.  e  che  tale  e'  stato
 riconosciuto, infine, nella stessa ordinanza delvolutiva della  Corte
 militare d'appello del 17 aprile 1996.
   Percio'  in  tale  qualita'  e'  legittimato  a  conoscere  di ogni
 doglianza, eccezione o questione  proposta  nelle  impugnazioni,  con
 effetto ex tunc, e cioe' dal momento delle relative presentazioni del
 resto, non si vede come un giudice funzionalmente sovraordinato possa
 ritenersi  vincolato  a decisione assunta senza definiti caratteri di
 non rivedibilita', da giudice inferiore; tanto  piu'  che  l'art.  24
 della   legge   11  marzo  1953  n.  87,  nella  costituzione  e  sul
 funzionamento della  Corte  costituzionale  (integrata  e  modificata
 dalla  legge  18  marzo  1958  n.  265) prevede nel secondo comma che
 l'eccezione di illegittimita' costituzionale, respinta per  manifesta
 irrilevanza o infondatezza, puo' essere riproposta all'inizio di ogni
 grado   ulteriore   del   processo,   enunciando   il   principio  di
 riproponibilita' ad giudice  successivo,  che  puo'  applicarsi,  per
 l'eadem ratio anche alla fattispecie presente.
   Tanto   premesso,   l'eccezione   di   parte   deve  ritenersi  non
 manifestamente   infondata   e   ne   e'   doverosa,   pertanto,   la
 sottoposizione alla valutazione del giudice costituzionale, in ordine
 al  denunciato contrasto tra la norma ordinaria impugnata e gli artt.
 3, 24 della Costituzione, cui vanno aggiunti gli artt. 2 e  10  della
 stessa  Corte,  secondo  ulteriori  argomenti  avanzati dai difensori
 nell'odierna udienza.
   Punto di partenza al riguardo non puo' non essere la  dichiarazione
 di  manifesta  infondatezza,  pronunciata  dalla  Corte  militare  di
 appello, sostanzialmente modellata sulle motivazioni enunciate  dalla
 Corte  di cassazione, sez. 5 pen., con sentenza 12 dicembre 1991 ric.
 Spampinato,  nella quale eguale eccezione era ritenuta manifestamente
 infondata alla stregua di duplice considerazione:
     a) essere, cioe', la disposizione di' cui all'art. 443 n. 1 lett.
 b,  c.p.p.  espressione  della  discrezionalita'   del   legislatore,
 giustificata  dai  caratteri della pena inflitta, che e', appunto, la
 sanzione sostitutiva;
     b) non potersi richiamare al riguardo i  concetti  esposti  nella
 sentenza  n.  363/1991  della  Corte  costituzionale  per la quale la
 diversita' di posizione tra imputati condannati a pena  concretamente
 eseguibile,  e  che  possono proporre appello, e imputati per i quali
 comunque la pena irrogata  non  deve  essere  eseguita,  non  ammessi
 all'appello,   non   e'   fondamento  ragionevole  della  limitazione
 apportata, per la seconda categoria, al diritto di difesa,  assumendo
 a  proprio  presupposto  elemento  estrinseco  alla  natura del reato
 commesso ed ai caratteri della pena irrogata, o al tipo  di  sanzione
 ed  alla  sua  misura  edittale,  e  cioe'  agli  aspetti destinati a
 caratterizzare  la  responsabilita'  dell'imputato  posto  che  dalla
 stessa   motivazione  emerge  che  la  differenza  di  pena  inflitta
 costituisce,  appunto,  criterio   ragionevole   di   diversita'   di
 trattamento  in materia di impugnazioni, giacche' anche la piu' grave
 delle  sanzioni  sostitutive  (la  semidetenzione)  e'  connotata  da
 elementi che la diversificano nettamente, ed in senso ovviamente piu'
 favorevole, della pena detentiva.
   Tuttavia,  queste argomentazioni non sembrano totalmente appaganti,
 innanzitutto perche' anche nel caso di  applicazione  delle  sanzioni
 sostitutive  a  pene  detentive  brevi  si  ha intervento di elemento
 estrinseco alla natura del  reato,  rappresentato  dall'esercizio  di
 potere   discrezionale  riservato  al  giudice  secondo  il  disposto
 dell'art. 58 legge 24 novembre 1981 n. 689, e  sia  pure  nei  limiti
 fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati nell'art. 133
 c.p.,  che  sono  poi  quelli  medesimi  da  osservarsi  in  tema  di
 sospensione  condizionale  della  pena,  donde  l'assimilazione   tra
 situazioni   per   taluni   versi   accostabili,  l'una  delle  quali
 negativamente scrutinata dal giudice costituzionale con la  precitata
 sentenza,  e  perche',  conseguentemente,  anche  il tipo di sanzione
 risultante  dall'applicazione  delle  sanzioni  sostitutive  acquista
 ingresso  e  rilievo nel processo non per predeterminazione normativa
 generale  ed  inderogabile,  bensi'  individualmente  a  seguito   di
 cognizione  giudiziale,  che porti alla valutazione discrezionale cui
 si e' fatto cenno e' situazione ben diversa  da  quelle  contemplate,
 sempre  in  tema di limitazioni dell'appello, nell'articolo 593 dello
 stesso codice di rito.
   In ogni caso, l'opinione avverso a  quella  qui  formulata  non  ha
 tenuto  conto di dato che, nella soggetta materia, sembra di cospicua
 rilevanza: la possibilita' di conversione della sanzione  sostitutiva
 in  quella  detentiva  sostituita,  al  verificarsi  delle condizioni
 previste negli artt. 66 e 72 della precitata legge n.  689/1981,  che
 ne  comportano  anzi  la obbligatorieta', sia pure limitatamente alla
 restante parte di pena, con  sostanziale  ripristino  della  sanzione
 detentiva  originariamente  irrogata,  nel titolo qualitativo, se non
 nella quantita'.
   In tal caso, il condannato, cui l'appello era stato negato in forza
 della  sostituzione operata con la sentenza di condanna, non sarebbe,
 naturalmente, reintegrato nel diritto di esperire  tale  mezzo  e  ne
 deriverebbe  forzatamente  irrazionale  disparita' di trattamento nei
 confronti di chi, condannato ad eguale pena detentiva non sostituita,
 ha avuto modo di proporre l'appello, senza limitazione alcuna.
   Ad  eguale  posizione  giuridica,  insomma,  non   corrisponderebbe
 conforme  parita'  quanto alle impugnazioni, ne' la lesione della par
 condicio sembrerebbe giustificata dal verificarsi  soltanto  postumo,
 nell'un  caso,  delle  condizioni  per  la  conversione;  sicche'  ne
 risulta, in definitiva, profilo che, comparato al  principio  sancito
 dall'art.    3 della Costituzione, rende non manifestamente infondata
 la questione, anche sotto l'angolo visuale teste' proposto.
   Ma va aggiunto profilo nuovo (argomentato dai  difensori,  come  si
 diceva,  all'odierna udienza) che ha delineato contrasto tra la norma
 ordinaria de qua ed i principi stabiliti negli artt.  2  e  10  della
 Carta,   si  tratta,  precisamente,  del  riferimento  al  protocollo
 addizionale n. 7 alla "Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
 diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali" (ratificata dal
 Presidente della Repubblica  italiana  per  autorizzazione  conferita
 dalla  legge 4 agosto 1955 n.  848, ed entrata in vigore per l'Italia
 il 26 ottobre 1985), ratificata e resa esecutiva con legge  9  aprile
 1990 n. 98.
   L'art.  2,  primo  comma,  di  detto protocollo stabilisce che ogni
 persona dichiarata colpevole di  un  reato  da  un  tribunale  ha  il
 diritto   di   far   esaminare  la  sua  giurisdizione  superiore  la
 dichiarazione di colpevolezza o la condanna e che l'esercizio di tale
 diritto, ivi incluse i motivi per cui esso puo' essere  invocato,  e'
 disciplinato  dalla legge. Il secondo comma dell'articolo stabilisce,
 poi, che tale diritto puo' essere soggetto  di  eccezione  per  reati
 minori  quali  sono  definiti  dalla  legge o quando l'interessato e'
 stato giudicato in primo grado dalla piu'  alta  giurisdizione  o  e'
 stato  dichiarato  colpevole  e  condannato  a  seguito di un ricorso
 avverso al suo proscioglimento.
   La possibile incidenza di questa normativa nella delibazione  della
 questione  di  costituzionalita',  di  cui  si  tratta,  e'  sfuggita
 all'attenzione tanto della Corte di cassazione,  nella  summenzionata
 sentenza  del  12  dicembre  1991,  quanto  della  Corte  militare di
 appello, nell'ordinanza richiamata del 17 aprile 1996.
   Si e' in presenza di pretermissioni di non poco conto, poiche'  per
 un verso non e' dubbio trattasi di diritto internazionale formalmente
 riconosciuto  dallo  Stato  italiano per ratifica dei relativi patti,
 concernenti  diritti  inviolabili  dell'uomo  (artt.  9  e  10  della
 Costituzione);   per  verso  aggiuntivo  l'esegesi  dell'articolo  in
 argomento, e del suo primo comma in particolare (il  secondo  non  ha
 riferimento  alla  fattispecie), sembra delineare la necessita' di un
 doppio  grado  di  giurisdizione,  l'uno   sovraordinato   all'altro,
 riguardante  il  medesimo oggetto (la dichiarazione di colpevolezza o
 la condanna), ed il secondo, o superiore, in fruizione di  riesame  e
 di   controllo  del  giudizio  precedente.  L'oggetto  stesso  sembra
 coinvolgere,  con  specifico  riferimento  al   sistema   processuale
 italiano,  il  concetto  di un doppio grado di merito, riguardante il
 vaglio delle prove di' colpevolezza e  l'applicazione  dei  parametri
 determinativi  della  sanzione,  postoche'  il  diverso  giudizio  di
 cassazione,  delimitato   al   solo   controllo   della   correttezza
 logico-giuridica  di giudizio inferiore, non riguarda direttamente la
 dichiarazione di colpevolezza o la condanna (si noti la  congiunzione
 disgiuntiva    che    accresce,    il   tasso   di   relazionabilita'
 dell'espressione alle questioni di  merito),  bensi'  la  conformita'
 della  sentenza  ai  principi deducibili dai casi di ricorso indicati
 nell'art. 606 del vigente c.p.p.
   Sembrerebbe  da  escludere,   pertanto,   che   la   "giurisdizione
 superiore",  designata dallo stesso art. 2 del protocollo addizionale
 al riesame immancabile (ovviamente, se richiesto dall'avente diritto)
 della colpevolezza dichiarata o della condanna,  possa  identificarsi
 nel  giudizio  di  cassazione, alla cui attivazione e' predisposto il
 ricorso  garantito  avverso  le  sentenze,  quando   non   altrimenti
 impugnabili, dell'art. 668 comma 2, c.p.p.
   Per  l'insieme  delle  ragioni  esposte,  la  dedotta  questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 443, n.  1,  lett.  b,  c.p.p.,
 deve  essere dichiarata non manifestamente infondata, con riferimento
 agli  articoli  menzionati   della   Costituzione   e   deve   essere
 conseguentemente  disposta  la  trasmissione  degli  atti  alla Corte
 costituzionale.
   Il giudizio in corso deve essere sospeso. Ai  sensi  dell'art.  23,
 quinto  comma  legge  11  marzo  1953, n. 87, deve essere ordinata la
 notificazione della presente ordinanza alle parti  ed  al  Presidente
 del   Consiglio   dei  Ministri,  a  cura  della  cancelleria,  e  la
 comunicazione ai Presidenti  del  Senato  della  Repubblica  e  della
 Camera dei deputati.